XX.

Teatro e prosa nel Seicento

1. Il teatro

Vasta e varia è la vita teatrale anche nel Seicento italiano, benché essa non raggiunga certo (in forza dei limiti piú volte notati della civiltà e della società secentesca italiana) gli esiti poetici altissimi cui il teatro secentesco perviene in paesi tanto piú ricchi di forte vitalità storica: il grande teatro shakespeariano in Inghilterra, quello di Corneille e di Racine in Francia, quello di Calderón de la Barca e di Lope de Vega in Spagna, che, d’altra parte, tanto debbono all’esperienza teatrale italiana cinquecentesca e alla stessa novellistica italiana, come dicemmo a suo tempo.

In Italia, nel Seicento, si espande e continua l’attività professionale e originale dei grandi attori e mimi della commedia dell’arte, che sempre piú s’affermano con le loro compagnie nei teatri europei, mentre insieme continua lo sviluppo del melodramma o dramma per musica avvantaggiato dal moltiplicarsi di musicisti, di scenografi che assecondano il gusto spettacolare del secolo in accordo con i librettisti, che sempre piú tendono ad offrire trame macchinose, complicate di toni eroici, comici, burleschi, disposte soprattutto a sollecitare gli effetti prevalenti della musica e della scenografia sacrificando la organicità e l’importanza del libretto e dell’opera letteraria, fino a quel grado minimo di una poesia resa serva della musica e della scenografia che alla fine del secolo provocherà le piú dure accuse contro il melodramma stesso.

La ricerca dello spettacolare teatrale può considerarsi del resto una delle caratteristiche generali del gusto barocco, che anche in poesia tendeva alla spettacolarità delle situazioni e dello stesso linguaggio. Ma accanto alla commedia dell’arte e al melodramma (o al dramma pastorale in cui si continuava la tradizione dell’Aminta del Tasso e del Pastor fido del Guarini e che, con maggior morbidezza e ingegnosità, trovò la maggiore realizzazione, mediocre, ma non priva di interesse, nella Fili in Sciro di Guidubaldo Bonarelli) non mancò nel Seicento italiano l’aspirazione alla vera e propria tragedia. E se nella maggior parte dei casi anch’essa venne investita dagli aspetti piú vistosi del gusto del secolo (ben presenti in opere complicate e spettacolari come quelle del Cicognini o dell’Andreini, famoso per il suo Adamo, spettacolo ambizioso di biblica ed edificante religiosità), due scrittori di teatro seppero pur elevarsi a vera altezza tragica e fondere teatro e poesia in forme tanto piú intime e schiettamente poetiche.

Si tratta di due scrittori, il Della Valle e il Dottori, che solo in tempi recenti sono stati riscoperti dalla critica (da Benedetto Croce anzitutto) e giustamente sottratti alle condanne globali di un secolo considerato troppo sbrigativamente tutto incapace di poesia.

Certo anch’essi non saranno da porre accanto a un Shakespeare, a un Racine, a un Lope de Vega, ma l’autenticità della loro poesia è indiscutibile e indiscutibile è la significativa via per cui dall’esercizio della letteratura giunsero al teatro trasfondendo in esso il succo migliore della loro formazione letteraria e culturale, variamente utilizzando moduli e toni barocchi per una poesia che di molto supera – per intensa intimità e forza sentimentale e poetica – la comune misura della poesia barocca.

2. Federico Della Valle

Federico Della Valle, nato intorno al 1560 ad Asti, visse alla corte di Torino come amministratore della cavalleria della duchessa Caterina, per poi passare, alla morte di quella, nel 1597, a Milano dove rimase fino alla morte (1628), al servizio del viceré spagnolo della Lombardia.

La sua esperienza di uomo di corte, confinato in incarichi modesti e sproporzionati rispetto alle sue capacità, confortò in lui la formazione di un fondo gravemente pessimistico sulla situazione umana e storica, mentre ideali controriformistici e ben secenteschi (il tema della regalità di origine divina, il tema della nobiltà del servizio dei potenti, alterato dalla invidia e dagli altri vizi della vita di corte, ma non contraddetto da tutto ciò nella sua positività, il tema religioso cattolico) si configuravano nella sua meditazione in forme alte e severe, confortate da una profonda severità morale e religiosa, tanto superiore al semplice conformismo di tanta parte del costume del secolo, e forse piú collegata alla moralità e religiosità di fine Cinquecento, come la sua poesia risente di esperienze tassesche e prebarocche.

Perciò quando – al di là di primi esercizi encomiastici e della debole tragedia pastorale Adelonda di Frigia – il Della Valle scrisse la sua prima vera tragedia, La reina di Scozia (stesa in una prima redazione col titolo di Maria la reina e poi rifatta, con lungo lavoro, fino alla stesura definitiva del 1628), egli poté immettere nella rappresentazione drammatica della morte sul patibolo di Maria Stuarda (avvenuta nel 1587) una profonda carica di sentimenti e meditazioni sulla malvagia vita di corte, sulle limitate possibilità di una politica prudente, accorta, ma onesta, sul tragico destino umano. Questa del destino umano è certo la nota piú fonda e cupa nella gamma di toni drammatico-elegiaci della tragedia (la dolcezza del ricordo, il tono tenero ed alto del lamento e commento, fra ammirazione e pietà, del coro di cameriere e di personaggi minori della vicenda della protagonista) e ad essa tutta l’opera guida nel suo sviluppo poco complesso e poco dinamico, ma intimamente tragico, nella scansione di momenti essenziali della cupa vicenda che – sempre nello sfondo squallido e ossessivo del carcere – aiuta lo svolgersi del personaggio centrale e dominante: quello della regina che dalla sua iniziale e dignitosa rassegnazione alla morte, destinatale dalla fortunata rivale, Elisabetta d’Inghilterra, si lascia prendere dalla speranza di una liberazione per ragioni politiche e insieme dal ricordo struggente di anni liberi e felici, per poi troncare eroicamente e santamente (Maria è alta incarnazione degli ideali regali-religiosi del poeta) ogni lusinga di vita, quando Elisabetta le offre salvezza purché essa favorisca la conversione degli scozzesi dal cattolicesimo alla religione anglicana e l’educazione in questa del proprio figlio Giacomo. Sicché Maria sarà definitivamente condannata al taglio della testa ed essa apparirà nel salire al patibolo – attraverso il racconto che ne fa un maggiordomo – eroica e santa, dignitosa e gentile, fiera e umanissima in una regalità accentuata dall’orrore della descrizione del suo capo troncato, quale è fatta dal compianto funebre di una fedele cameriera.

Tutta la tragedia ha l’andamento di un grandioso compianto, che drammaticamente (e con uno sviluppo assai lineare, ma non privo, ripeto, di momenti e svolte drammatiche) risale dalla tremenda vicenda quasi contemporanea ad un senso piú profondo della sorte umana, squallida e dolorosa quanto piú eroico e alto ne è il rappresentante individuale, e d’altra parte illuminata dalla prova suprema del sacrificio con cui l’uomo piú alto celebra la sua dignità, la sua superiorità di fronte alla ferocia degli utilitaristi spietati, la sua accettazione consapevole di un destino religiosamente giustificato nelle imperscrutabili intenzioni della divinità.

Non mancano nel fermo e alto linguaggio di questa tragedia moduli di tipo barocco, metafore e antitesi, usati con sobrietà e funzione di intensificazione delle note solenni od orride della vicenda. Ma certo piú mossa, intrecciata nei personaggi o negli avvenimenti, piú arricchita di moduli di tipo barocco (pur nella sostanziale linearità di fondo della poesia dellavalliana) appare la seconda tragedia: l’Ester, ancora inquadrata in una corte (quella del re assiro, Assuero, nemico e sterminatore del popolo ebreo, ma indotto a pietà per gli israeliti superstiti dalla moglie ebrea, Ester, e da questa indotto persino a colpire con la sua collera regale lo scellerato consigliere Aman). Ancora una volta il grande motivo della miseria umana campeggia nella tragedia dellavalliana, si arricchisce di una meditazione, profondamente poetica, sull’incertezza di ogni avvenire, dell’incompatibile amore fra signori e sudditi, sulla pietà che è dovuta persino ai malvagi, esposti anch’essi alla stessa sorte di sventura.

Se l’Ester rappresenta un nuovo momento della poesia dellavalliana (in cui la maggiore complicatezza di vicende e personaggi permette un maggiore movimento e uno scavo riflessivo e psicologico piú vasto dell’uomo nella varietà delle sue incarnazioni individuali), il suo momento piú alto e veramente complesso è rappresentato dalla terza e ultima tragedia, Judit, potente di toni, di risonanze poetiche, di chiaroscuri vigorosi sin nelle prospettive sceniche della notte e del giorno, del campo buio degli assedianti e nella luminosità della città di Betalia da cui parte l’assalto vittorioso degli ebrei.

In questa tragedia il Della Valle concentrò ed espresse (con un linguaggio piú risentito e immaginoso, ma mai falso e inutile) i suoi motivi storico-personali piú approfonditi: lo sdegno per la corte (e per i cortigiani vili e intriganti) come essa si configurava nella decadenza secentesca, l’antipatia per la forza prepotente e ingiusta, la pietà (veramente singolare nel tempo) per la misera vita dei soldati, vittime di disegni politici che non li riguardano, la piú generale intuizione dell’urto fra potere e subalterni costretti a seguirne e a soffrirne la logica implacabile e stolta, e d’altra parte – sempre sul fondo del suo pessimismo circa la sorte degli uomini – il vigoroso sentimento della giustizia di Dio e della volontà eroica di chi se ne fa interprete e mezzo, anche quando è costretto (come la virtuosa Judit, costretta a divenire seduttrice di Oloferne per poterlo uccidere e favorire la vittoria del popolo ebreo) a ricorrere ad arti che ripugnano alla sua coscienza.

Ne risulta un’opera forte e corrusca, in cui si insinuano motivi erotici e sensuali sia nella descrizione della seducente bellezza dell’eroina, sia in quella del desiderio che per lei prova il barbarico e grandioso Oloferne, come vi si realizzano toni beffardi e crudeli e toni grotteschi sempre funzionali all’organica complessità della tragedia.

3. Carlo de’ Dottori

L’altro poeta tragico che illustra con sicura forza e intimità poetica il teatro secentesco italiano è Carlo de’ Dottori, il quale opera nel pieno del secolo e tanto meglio indica le possibilità che la mano sicura di un poeta esperto e ispirato poteva ricavare dalle stesse tendenze stilistiche barocche subordinate ad una ispirazione e direzione tanto piú chiara e sincera di quella della poesia barocca di tipo marinistico.

Nato di famiglia nobile a Padova nel 1618, dopo vicende giovanili letterarie e civili legate alla vita della sua città (fra l’altro fu incarcerato per tre mesi, accusato di aver scritto un libello contro alcune dame padovane), cercò e ottenne protezioni illustri (soprattutto quella del coltissimo cardinale Leopoldo de’ Medici), passando però gran parte della sua vita nella città natale dove, rattristato da malattie e sventure domestiche, morí nel 1680.

Dalla sua esperienza vitale e sociale il Dottori ricavò un crescente e profondo odio per la violenza della classe nobiliare (cui pure egli apparteneva), per il suo punto d’onore, per l’uso “infame” dei bravi nelle loro vendette e un ben diverso senso del vero eroismo morale, che trovava una specie d’accordo fra l’alta virtú classica e la sublime capacità di sacrificio altruistico del cristianesimo. E tali alti motivi alimentano gli elementi piú energicamente satirici presenti in poemetti scherzosi ed eroicomici come l’Asino (1652) e si associano, in quello, con motivi amorosi di rara ed eletta gentilezza, espressa in un linguaggio semplice e casto (soprattutto nel passo riportato nell’antologia: la morte dell’eroica e pietosa Desmanina), per poi trovare – al culmine di una lunga attività letteraria composta anche di poemetti erotici di tipo marinistico come la Galatea e di odi piene di solenne e sincero entusiasmo eroico – la loro piú compatta espressione poetica in una tragedia che, con quelle del Della Valle, rappresenta il frutto piú maturo e importante del teatro secentesco.

Si tratta dell’Aristodemo, steso già nel 1654 e poi rielaborato assiduamente nel 1657. In questa tragedia il Dottori dà poetica e organica vita ad un complesso mondo di peripezie e di personaggi, che gli permette di approfondire il senso intimo di quelle vicende e la vita interiore dei personaggi, tutti vivi e attivi nello svolgersi del dramma che li coinvolge e li individua particolarmente.

Al centro spicca la dolce, eroica e severa gentilezza femminile di Merope, vittima necessaria e volontaria (secondo l’antico mito seguito dal poeta) di un sacrificio imposto da un rito orrendo, in espiazione delle colpe della città, Messene, e della scellerata sete di potere del padre, Aristodemo, che si servirà della morte di Merope e di quella dell’altra figlia, a lui come tale inizialmente sconosciuta, Arena, per affermare la sua autorità regale, nonché di quella di Policare, fidanzato di Merope e lapidato dalla folla come sacrilego nel suo vano tentativo di sottrarre l’amata al sacrificio.

La tragedia vive cosí nel rilievo possente e gentile della vera protagonista, Merope, che nel suo dialogo con l’amato Policare, o negli stessi versi lapidari che descrivono la sua morte per mano del padre in una compostezza classica e perfetta, rivela la profonda umanità del Dottori, il suo dolore pietoso per la sua eccelsa creatura, la sua simpatia per i caratteri eroici e quasi cristiani di essa, che vuol morire “sola ed innocente” e riparare cosí all’errore della fortuna con una morte bramata quale alta celebrazione della propria virtú e del proprio generoso altruismo. E d’altra parte la tragedia vive nell’intreccio di personaggi, tutti (persino Aristodemo, che nel finale avvertirà finalmente l’orrore dei suoi delitti e l’inferno dei rimorsi) interiorizzati in uno scavo sicuro, misurato, lirico della loro umanità: il gentile e generoso Policare, la tredipa e dolente madre di Merope, Amfia, e gli altri personaggi minori, mai inutili e inerti in un’opera che si caratterizza anzitutto per una sua lirica e intensa tenerezza, per una sua viva e dolente umanità («piango le cose umanamente amate», dirà Policare di fronte alla decisione di sacrificio dell’amata). E a questa alta temperie sentimentale (arricchita da tante vibrate sentenze sull’orrore del potere, dell’ambizione, dello spirito di vendetta, come su tanti finissimi rilievi della tragica sorte degli uomini) ben corrisponde una costruzione tesa e chiara, un linguaggio che sa schiarire classicamente, senza disperderne la forza, le forme epigrammatiche, concettose, metaforiche del barocco, indicando quali possibilità poetiche avrebbero potuto ricavarsi anche dal linguaggio barocco, se esso fosse stato usato da veri e sostanziosi poeti, ricchi di umanità e di sincere risorse morali.

E se è vero che la storia non si fa con i “se”, di tali possibilità rimangono pur prova concreta opere appunto come l’Aristodemo.

4. La prosa barocca: il romanzo e la novella

Ingente è nel Seicento la produzione di romanzi, secondo una naturale diffusione di questo tipo di narrazione “lunga” e complicata di avventure, intrighi amorosi e politici, di sviluppi psicologici, di descrizioni di quel costume cavalleresco che corrisponde al rinnovato amore, da parte della società feudale secentesca, per personaggi e vicende di eccezione, di eroismo altero e aristocratico, di morbide e ambigue situazioni erotiche e sensuali. In altri paesi europei il romanzo (nuova creazione letteraria che sostituiva i poemi cavallereschi dei secoli precedenti e usava la prosa come piú adatta al racconto e alla delineazione psicologica piú puntuale) raggiunse veri e propri capolavori di varia intonazione, o piú chiaramente cavallereschi come la Principessa di Clèves di madame di La Fayette in Francia, o piú popolareschi e realistici-satirici come i romanzi picareschi in Spagna (per non dire del grandissimo Don Chisciotte del Cervantes), o piú fortemente rappresentativi di crisi storiche e nazionali, come il Simplicissimus del Grimmelshausen in Germania.

Ma in Italia al numero e all’interesse documentario dei moltissimi romanzi (che documentariamente rappresentano tanti aspetti di un secolo avido del romanzesco come evasione piacevole nel regno dell’immaginazione e come sublimazione del proprio costume o come discettazione moralistica su una vasta casistica di situazioni singolari ed eccitanti) non corrisponde un adeguato valore artistico, una vera capacità di forte e organica struttura narrativa, una ispirazione compatta e coerente. Sí che nessuno dei numerosi romanzieri, che nel corso del secolo alimentarono l’immaginazione di un vasto pubblico di lettori, si sottrae veramente ad un giudizio di prolissità, di complicatezza, di disordine, di sciatteria stilistica, e il loro stesso interesse storico, politico e religioso non riesce mai a condensarsi in problemi centrali e capaci di sorreggere le macchinose e dispersive costruzioni narrative.

Ciò vale per quel Giovanni Ambrosio Marini, di Genova, il cui maggiore romanzo, Il Calloandro fedele, ebbe fama e traduzioni in tutta Europa per l’incontro di elementi eroici e galanti cosí congeniale al gusto barocco e che tuttavia si avvolge in tale complicazione e moltiplicazione di elementi e personaggi da risultare come una sorta di labirinto piú meccanico e ingegnoso che veramente e poeticamente libero e vario.

Né certo maggiore consenso può darsi ai numerosi romanzieri (specie attivi nell’ambiente veneto) che cercano di inserire nelle vicende epico-cavalleresche il riflesso di loro esperienze e meditazioni storiche e morali: il caso di Giovan Francesco Loredano, o di Giovan Francesco Biondi, o di Pace Pasini (la cui Historia del cavalier perduto ha fatto pensare ad una sua maggiore e soggettiva presenza, in verità assai discutibile, fra le letture di romanzi barocchi con cui il grande Manzoni accompagnò la preparazione dei Promessi Sposi), o di Maiolino Bisaccioni già ricordato come storico (con i suoi interessi di cronaca romanzata di vicende e intrighi politici del tempo, magari nella lontana Russia, come avviene nel suo Demetrio Moscovita), o dei due Manzini, del Morandi, del Mancini, del Moroni con i loro romanzi narrativi edificanti nel preciso indirizzo della religione controriformistica (ma poi – e si pensi al Principe santo del Moroni – cosí moralmente e religiosamente ambigui nell’accarezzamento di storie erotiche persino incestuose, di tentazioni sensuali, di peccati, oggetto poi di conversioni e di untuose condanne), o di quello stesso Girolamo Brusoni che porta notevoli diversità nel campo della narrativa, con i suoi tardi romanzi piú arditamente libertini, certo assai interessanti per la maggiore spregiudicatezza con cui affrontano la vita amorosa nei suoi diritti di contro alle remore moralistiche, religiose e sociali, ed anche per uno stile che si è andato facendo piú agile e velocemente analitico.

Non molto aggiungono (escludendone naturalmente le fiabesche novelle dialettali del Basile già a parte considerato) al panorama vasto, ma, ripeto, artisticamente debole, della narrativa secentesca le raccolte di novelle, che, anzi, nel loro insieme appaiono anche piú fiacche dei romanzi, anche se – entro i tentativi di rinnovamento tipici del Seicento – esse possono rappresentare (siano i novellieri del ricordato Bisaccioni, o quelli del genovese Anton Giulio Brignole-Sale, o del veneziano Giovanni Sagredo) una rottura degli schemi della novellistica boccaccesca e cinquecentesca, opponendo a quella piú una certa frammentaria acutezza brillante di descrizione di momenti isolati e di battute argute e ingegnose (entro cornici piú volte ad una conversazione spiritosa e “geniale”) che non una vera nuova struttura.

5. La prosa d’arte e i viaggiatori del Seicento

Sulla scia dei tentativi di prosa romanzesca e brillante che si sono rapidamente passati in rassegna nel paragrafo precedente si muovono altri scrittori di prose, che non perdono mai di vista, o raramente e per eccezioni, la prospettiva dell’acutezza, o semplicemente perseguita nelle forme espressive, o piú concretamente collegata ad un contenuto piú o meno precisato. Piú particolarmente si potrà dire che, come nella poesia barocca vanno registrate varie posizioni e sfumature a seconda del grado con cui si aderisce da parte dei singoli poeti alle proposte mariniane teorizzate in seguito dal Tesauro, cosí nella prosa si possono rintracciare diverse tendenze piú o meno accentuatamente barocche. Anche se regolate su di un diverso dominio e una diversa pratica dell’acutezza e della metafora, tutte appaiono tuttavia fondate su uno slancio di immagini bizzarre, usufruenti di un lessico ricco e sovrabbondante, ora dotto ora proprio della lingua parlata, tessute su di una sintassi complessa e preziosa. Si dovrà poi constatare che la prosa segue cronologicamente alla poesia barocca nel corso del secolo, prolungandosi fino alle zone estreme di esso anche nelle sue forme piú tipiche ed esagerate.

Il maggiore rappresentante della prosa barocca, nel quale veramente questa può essere detta “prosa d’arte” per la preziosità, la ricercatezza e anche la dottrina con cui viene elaborata, è Daniello Bartoli, nato a Ferrara nel 1608, entrato a quindici anni nell’ordine dei gesuiti, nel quale occupò presto un posto eminente per dottrina, riservato quindi, dopo una prima esperienza di predicatore in missioni svolte in Italia e dopo un naufragio capitatogli, con rischio della vita, mentr’era di ritorno dalla Sicilia, a mettere a frutto le sue indubbie qualità di scrittore inventivo ed esuberante. Ritiratosi nel Collegio gesuitico di Roma, vi visse a lungo appartato e dedito alla composizione delle sue moltissime opere, prima di tutto quella che costituí il suo compito ufficiale affidatogli dalla compagnia, la Storia della compagnia di Gesú cioè. A Roma morí nel 1685.

La Storia della compagnia di Gesú occupò molti anni della vita del Bartoli; nel 1650 uscí la Vita e istituto di Sant’Ignazio; seguirono le narrazioni delle missioni gesuitiche nei paesi piú diversi, fino a quando apparve nel 1673 la storia delle missioni gesuitiche in Italia. Occupando tanto spazio di tempo, accade naturalmente che l’opera sia tutt’altro che omogenea; essa è anzi assai disuguale, ora piú piatta e stanca, ora piú rilevata ed efficace, soprattutto là dove le doti di descrittore del Bartoli possono esercitarsi su una materia piú ricca, varia e mobile, accendersi nella visione di paesaggi inconsueti ed esotici, farsi arguta e concettosa nella presentazione di usanze e costumi di popoli lontani come anche nella delineazione dei casi spesso eccezionali e del carattere di singoli personaggi. Ma se la Storia della compagnia è, per la vastità della struttura (il Bartoli utilizzava nello stendere la storia delle missioni le relazioni dei padri missionari, riscrivendole in forme nuove) e per il continuato impegno dello scrittore, l’opera forse piú largamente caratteristica delle attitudini e dei gusti letterari dello scrittore, va anche detto che è in altre opere, di minor respiro ma di piú coerente organicità, che vanno cercati i risultati piú notevoli che il Bartoli può offrire. Se, infatti, nella Storia la nota unificante restava alla fine il grandioso e il magnifico, la tensione verso la meraviglia, che è la dimensione piú autentica di tutta l’attività scrittoria del Bartoli, si articola in queste altre opere in un esercizio piú minuto di particolari, sia nella descrizione di aspetti o di fenomeni naturali o di oggetti o di animali, sia anche nel gusto sentenzioso, nella delineazione di un ideale di vita intenso e saggio, nella riflessione morale, magari mediocre, ma svolta in un orizzonte sereno e sicuro, riflesso certo di una complessa educazione spirituale.

Tale innanzi tutto L’uomo di lettere corretto ed emendato (1654), dove il Bartoli manifesta le sue convinzioni artistiche, fondate su una concezione estetica sostanzialmente pedagogica, che programmaticamente rifiuta l’acutezza e la concettosità barocche anche se poi, in effetti, in quello stesso rifiuto egli s’esprime con una sovrabbondanza, con un gusto di antitesi e di ingegnosità che bene rivela quanto ciò ch’egli rifiuta sia condizione della sua stessa esperienza. E non meno che in questo trattato di retorica la sua vera tendenza alla fastosità, preziosità, giuoco arguto, si trova nell’Uomo al punto (1657), una sorta di invito agli uomini a regolare la vita nella prospettiva della morte e soprattutto a riflettere sul momento del trapasso, e nella Ricreazione del savio (1659), che è una fervida esaltazione delle bellezze della natura, opera di Dio, esaltazione concretata, per mezzo di un’efficace forza di osservazione, nel disegno armonico della natura, nella intensità dei colori, nel sentimento della ricchezza infinita del creato.

La sua abilità di scrittura, insieme all’ingegnosità fertile di paralleli, di suggestioni, di trovate vere e proprie, trova sfogo anche in altre opere di natura linguistica e grammaticale, come Il torto e il diritto del Non si può (1655), o di argomento morale, come La geografia trasportata al morale (1664) e I simboli trasportati al morale (1667), nelle quali il Bartoli s’esercita con molta abbondanza nel giuoco di trovare in ogni cosa un significato morale, o ancora di interesse scientifico, come Del suono, dei tremori armonici e dell’udito (1679) e Del ghiaccio e della coagulazione (1681), dove non è la verità scientifica della materia ad interessare lo scrittore, ma piuttosto l’occasione di ammirare e di descrivere complesse e straordinarie apparenze della natura.

Se il Bartoli in un’abile scrittura concettosa realizzava l’immagine di un mondo di per sé meraviglioso, altri scrittori si affidarono completamente ad un esercizio scrittorio basato sul compiacimento per l’abilissimo maneggio delle forme espressive. Tali sono le prediche, le opere devote e le storie romanzate (La vergine parigina, L’eroina intrepida) del frate genovese Francesco Fulvio Frugoni, che dà interamente la misura di sé nell’opera in sette tomi, o “latrati”, del Cane di Diogene, sorta di congestionata satira dei vizi contemporanei, distesa in una prosa ricercata, allusiva, erudita, artificiosa e metaforica.

Su una via diversa cercò un suo ideale di stile, nel quale accettava l’acutezza e la concettosità, schivando però ogni sovrabbondanza, in una dimensione piú seria e fine, modellata sull’esempio di Seneca (tanto da costituire l’esempio piú notevole del “senechismo” secentesco, che si colloca accanto al “tacitismo” del quale già s’è parlato), il bolognese Virgilio Malvezzi (1595-1654), che passò dai giovanili Discorsi sopra Tacito (1622) alla composizione di storie romanzate (Romolo, 1629; Tarquinio il Superbo, 1634; Coriolano e Alcibiade, 1648), destinate ad incontrare il favore del pubblico secentesco, e ad opere di storia contemporanea (Successi principali della monarchia di Spagna nell’anno 1639), nelle quali egli tentava una prosa vivace ed espressiva, sobria e sentenziosa, molto ammirata dal Gracián e dal Quevedo e che molto influí su una certa cultura spagnola del Seicento. In Ispagna, infatti, il Malvezzi ebbe larga notorietà, anche per essere stato prima soldato poi ambasciatore al servizio del re di Spagna.

A queste tendenze, che, per varie che siano, s’ordinano tuttavia in una prospettiva sostanzialmente e solidamente barocca, non mancarono però gli oppositori. Uno di questi fu il gesuita romano Paolo Segneri (1624-1694), che nelle prediche (Panegirici, 1664; Prediche dette nel Palazzo Apostolico, 1694) e nelle prose spirituali di vario argomento (Cristiano istruito, 1686; Incredulo senza scusa, 1690) si richiama ad uno stile piú energico e ad una maggior consistenza di contenuti morali, rifiutando il giuoco d’intelligenza tutto formale dei maggiori prosatori del secolo.

Come si è visto, la “prosa d’arte” secentesca è esercitata soprattutto nel campo religioso e devoto; dove ben si capisce come non sia la religione ad avere la maggiore importanza, ma piuttosto la volontà di persuadere attraverso le forme piú esasperate del secentismo e le seduzioni piú materiali. Devozione e sensualismo camminano di pari passo, e in perfetto accordo. Ed è anche a questa prosa, oltre che alla poesia barocca, che il secolo che sopravviene cerca con ogni sforzo di opporsi, cercando semmai nel Seicento dei punti di appoggio sostanziati di una maggiore sobrietà, di una diversa serietà morale e intellettuale, nella linea insomma galileiana. Alla quale, del resto, possono avvicinarsi, anche se soprattutto esteriormente, alcuni dei compilatori, assai numerosi nel secolo, di relazioni di viaggi.

Operano costoro sostanzialmente su due linee, una animata da un interesse del viaggio per se stesso, l’altra da una destinazione edificante: nel primo caso si tratta di cronache di “turisti”, nel secondo di missionari. Tra le due linee si trova appunto una posizione piú singolare, che è quella di chi, viaggiando, non trascura di osservare fenomeni naturali, semplici paesaggi, luoghi e configurazioni geografiche con uno spirito che, magari un po’ superficialmente, partecipa dell’attitudine del secolo alla ricerca o all’esame scientifico. Ciò che sostanzialmente scompare nell’attività di questi scrittori è quell’interesse concreto, che al principio del secolo aveva ancora animato Francesco Carletti, per gli aspetti commerciali dei paesi che si visitano, per le ricchezze da raccogliere e commerciare, per la possibilità di intavolare buone relazioni d’affari con popoli lontani. Invece troviamo per esempio in un Pietro Della Valle (1586-1652), autore di una relazione di Viaggi in Turchia, Persia e Medio Oriente, una curiosità epidermica per i luoghi visitati, per le situazioni politiche incontrate, per le costumanze sociali e religiose, che vengono giudicate di solito in un confronto tra la civiltà occidentale, la migliore possibile nel giudizio del viaggiatore, che è stato definito appunto un “turista” (anche se magari egli va arzigogolando impossibili alleanze politiche tra popoli diversi), e le civiltà indigene. Nella Istoria delle guerre civili di Polonia di Michele Bianchi, che visitò, tra il 1648 e il ’57, molti paesi dell’Europa orientale, affiora un prevalente interesse sociale e dalla costituzione delle società egli deriva conclusioni abbastanza improvvisate sul carattere delle popolazioni visitate. E tra questi “turisti” e “diplomatici” nomineremo Bernardo Bironi e Carlo Ranzo. Un riaffiorare di curiosità per i problemi economici, per i vantaggi pratici che possono derivare da terre lontane si può registrare piú tardi nel Giro del mondo (1699) di Francesco Gemelli-Careri, animato da una mentalità in parte già nuova.

Quello che dicevamo circa una presenza di disposizioni di tipo galileiano si può incontrare nell’opera Viaggio settentrionale di Francesco Negri (1623-1698), che visitò i paesi scandinavi e vi osservò molte cose minutamente e con interesse vagamente scientifico. Al di là di questa linea si trovano i molti missionari che uniscono spesso un vivo interesse di scoperta di popolazioni selvagge con l’intento dichiarato di far capire come il buon selvaggio sia suscettibile di ricevere facilmente e con buona disposizione il verbo cristiano. Tale è Francesco Bressani, che viaggiò nel Canada e descrisse le popolazioni indiane d’America con verità e franchezza, se non con doti coloristiche e rappresentative. Fra i viaggiatori “missionari”, estensori di varie relazioni, si ricordano Cristoforo Borri, che nel 1615 fu in Cocincina, Giovanni Battista Bonelli, che raggiunse le Indie, il Tonchino e Macao, Arcangelo Lamberti, che fu missionario in Georgia e in Migrelia, regione a sud del Caucaso, tra il 1630 e il ’49, Giovanni Francesco Romano, che intorno alla metà del secolo fu in Africa, nella regione del Congo, come anche Giovanni Antonio Cavazzi e Fortunato Almandini, autori di una Istorica descrizione de’ tre regni Congo, Matamba e Angola (1687).